Lettura: La forma dell’amore – di Alessandro D’Avenia

«Ehi, voi due, cos’è che volete l’uno dall’altro? Desiderate congiungervi indissolubilmente in una sola cosa, così da non lasciarvi né di giorno né di notte?» chiede il dio Efesto a due amanti sorpresi a unirsi, in un passo memorabile del Simposio, il dialogo di Platone sull’amore. Perché vogliono stare attaccati, si chiede il filosofo? «Non è il solo piacere erotico lo scopo per cui se ne stanno stretti con tale intensità. No: l’anima di ciascuno vuole un’altra cosa che non sa esprimere, ma che intuisce e manifesta con simboli». Per Platone carezze, abbracci, amplessi sono tentativi di afferrare qualcosa che sembra manifestarsi nell’unione con l’altro, ma che sempre sfugge. Gli amanti sono le due infelici metà di una sfera spezzata, in cerca dell’unità originaria, per non sentire più la loro dolorosa incompletezza. Infatti il dio fabbro propone loro di fonderli per sempre, così da non perdere mai più quello che l’eros ha fatto trovare loro. Ma, alla prova dei fatti, la fusione erotica non basta: l’essere «incollati» lenisce ma non guarisce la nostra incompiutezza e fragilità. Il miracolo, che l’eros aveva promesso e che i gesti hanno cercato, sembra rimanere irraggiungibile.

Il Cantico dei Cantici, uno dei libri della Bibbia che amo di più e rileggo periodicamente, mette in scena la stessa ricerca dell’impossibile attraverso l’eros di un ragazzo e una ragazza. Ma a differenza dell’amore senza fessure di Platone, qui tutto è pieno di vie di fuga. I corpi dei due si nascondono, si cercano, si inseguono, si toccano, si perdono: proprio al momento della loro massima vicinanza, il con-tatto, corrisponde sempre una mancanza, soprattutto nel finale. Come mai? Perché l’amore raccontato dall’anonimo autore del Cantico, 25 secoli fa, rappresenta l’amore così com’è, pieno di promesse e di delusioni, ma proprio per questo, anche se può sembrare contraddittorio, aperto al miracolo. L’amore non è la circolarità perfetta di due metà «incollate» nella sfera platonica, ma la frantumazione del guscio della solitudine dell’individuo, la graduale e reciproca resa, l’accettazione di una sconfitta che è in realtà una vittoria, perché solo chi esce da sé può trovare se stesso: «Mi alzerò e farò il giro della città, voglio cercare l’amore dell’anima mia» (3,2). I due amanti, toccandosi, con le mani e con le parole, vogliono «toccare il cielo», il loro amore vuole eternità, ma non ne ha le forze: «Ho aperto allora all’amato mio, ma l’amato mio era scomparso. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato ma non mi ha risposto» (5,6). Il desiderio allora diventa una breccia, due finiti si riconoscono tali e uniscono le loro debolezze per lasciare entrare l’infinito: e la loro insufficienza da condanna può diventare salvezza. Il Cantico non è un inno a «fare l’amore», come Roberto Benigni ha fatto intendere a Sanremo, ma a «fare spazio all’Amore». Per questo è il libro più commentato nella storia del cristianesimo: basti dire che quando Dante, dopo 64 canti (Purgatorio XXX, 11), incontra finalmente Beatrice, sceglie di indicarla proprio con un verso del Cantico («Vieni, o sposa, dal Libano»). L’amore del Cantico, tra ricerca e mancanza, gioia e dolore, possesso e perdita, ri-vela (cioè mette un velo su ciò che è troppo luminoso per poterlo guardare direttamente) come Dio cerca e vuole esser cercato dall’uomo: come fanno due ragazzi innamorati.

I due amanti di Platone cercano l’eterno senza riuscire a raggiungerlo o a farlo entrare nella loro sfera, quelli del Cantico, invece, accettano di avere una ferita che neanche l’altro può far guarire del tutto, ma se la medicano a vicenda per tutto il tempo della vita, perché non diventi mortale, e cercano insieme la cura. La ferita è la mancanza di eternità, che niente di ciò che è finito può guarire: chiunque cerchi eternità in un altro finirà con il rimanere deluso e con l’incolparlo di non essere il dio che aveva sperato. Per questo l’amore del Cantico non è sferico e compatto, ma ricco di aperture e crepe. Se l’amore umano fosse «tutto» l’amore, gli amanti sarebbero completi e non desidererebbero nient’altro, ma all’amore umano, per quanto felice, manca sempre qualcosa: il miracolo dell’eternità. Nel Cantico l’eros non è il fine, ma il desiderio del senza fine, la danza dell’«ancora, ancora», che gli amanti sperano nell’estasi, proprio perché sanno che finirà: «Dov’è andato il tuo amato, bellissima tra le donne, perché lo cerchiamo con te?» (6,1). Tutti vogliono l’amore senza fine, che non è possibile all’uomo, ma solo a Dio, qui intuito, proprio nella follia erotica dei due giovani, come fonte dell’amore che non muore mai: «forte come la morte è l’amore» dice infatti il più bel verso del Cantico (8,6). Leggetene gli otto capitoli (basta mezz’ora) e scoprirete che l’amore non ha la forma di una sfera, ma di una rosa, bella proprio quando si apre.

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